Un angolo di Parigi a Catania sulle note di Paolo Conte e la buona cucina sperimentata a Milano: la storia di Massimo Villardita e di Ratzmataz.
Per chi è di Catania o per chi arriva nella deliziosa traversa di via Montesano, quasi a ridosso dei quattro canti, fermarsi da Ratzmataz significa ripararsi, in due sensi: trovare riparo e aggiustarsi. Perché all’ombra del grande albero della piazza, succede questo: si trova riparo da una giornata afosa estiva e ci si aggiusta dopo una giornata frenetica, tra un bicchiere di vino, dell’ottima musica jazz e il legno caldo e familiare che riveste le pareti.
Ed è proprio tra i tavolini sotto l’albero, al termine di un piatto di gnocchi con crema di cavolo cappuccio viola, che incontriamo Massimo Villardita, la mente e il cuore che hanno costruito questa piccola sezione dislocata di Parigi, nel cuore di Catania.
“C’è prima il Fioraio Bianchi Caffè di Milano, con l’idea di combinare cibo e fiori: una difficoltà immensa all’epoca farsi dare la licenza, come tutte le innovazioni. La logica era ricreare un po’ di pariginità. Funziona. E ancora tutt’oggi è attivo”.
È così che inizia il viaggio di Massimo nel mondo della cucina e della condivisione.
“Io dal 1988 nasco in cucina, a Viagrande. Io con la mia laurea in giurisprudenza non riuscivo a fare nulla, volevo diventare notaio. Poi con mia moglie mi sono trasferito a Milano e ho lavorato tanto tempo lì con lei. Ma c’era la cucina nel cuore, in un periodo in cui non si voleva fare lo chef. Ed è stato bellissimo perché lì ho portato la pasta alla norma, ma con la passata di pomodoro fresco. Davvero, quello che non si fa nemmeno più nelle case. E la creme brulèe alla lavanda, spaziavo tantissimo”.
Al Fioraio si sbizzarrisce in mille ruoli, facendo cassa, cucinando, combattendo con le amministrazioni perché servire cibo e fiori non era poi così concepibile. Ma ritorna a Catania.
Era necessario tornare nella terra dei siculi e sicani, proporre alla gente un luogo che rievoca un tempo mai vissuto, una rilettura in chiave nostalgica. “Per me Milano è casa, come Catania, ex aequo. Io tifo inter, quindi per me è ulteriore dimostrazione di quanto la senta casa. Poi mi sono lasciato con mia moglie, sono venuto qui, mi sono incontrato con colei che adesso è mia moglie e mi sono portato dietro tutto quello che avevo, dai quadri alle cassapanche”.
E così nasce Ratzmataz. “Ho il libro con i disegni di Paolo Conte, che era un grandissimo pittore. E io sono rimasto folgorato da Razmataz. E piano piano ho costruito tutto. Non so se è un posto bello o brutto, l’ho fatto un posto mio. Me ne sono fregato.”
Si rimane colpiti da quel menù scritto a mano sulla lavagna e che cambia ogni giorno: i piatti sono giochi di profumi, creme e combinazioni che riescono a far affiorare per la maggior parte delle volte due aggettivi: “buono” e “sfizioso”.
Zuppa di zucca con formaggio fuso, spolverata di cacao e crostini. Gnocchi con crema di cavolo cappuccio viola. Cavolfiore affogato.
C’è sempre una meravigliosa spensieratezza tra i tavolini, tutti sentono quella magia che nasce di fronte all’ottimo cibo, al personale che ti chiama per nome, allo sgranocchiare delle schiacciatine riposte nella cesta, per ingannare l’attesa.
“La gente ama bere, condividere piattini di semplicità e rivisitazione, non c’è più il mangio e basta”.
Stiamo per terminare il nostro viaggio nel tempo, ci salutiamo con Massimo con una riflessione che condividiamo, che è nelle corde dei nostri progetti. “L’impresa non deve essere un guadagno dell’imprenditore. L’impresa deve essere un guadagno del quartiere. Della città. L’impresa deve avere valore sociale. Si deve lavorare per questo”.
E noi continueremo a farlo Massimo.
A concentrarci sull’idea che il cibo, quando fatto bene, genera valore.